Moby Dick alla prova

Posted by on February 8, 2022

MOBY DICK ALLA PROVA di ORSON WELLES adattato – prevalentemente in versi sciolti – dal romanzo di MELVILLE uno spettacolo di ELIO DE CAPITANI con ELIO DE CAPITANI Capocomico / Lear / Achab / Padre Mapple ANGELO DI GENIO Attor giovane / Ishmael GIULIA VIANA Attrice giovane / Cordelia / Pip CRISTINA CRIPPA Direttore di

MOBY DICK ALLA PROVA
di
ORSON WELLES
adattato
– prevalentemente in versi sciolti –
dal romanzo di MELVILLE
uno spettacolo di
ELIO DE CAPITANI

con

ELIO DE CAPITANI
Capocomico / Lear / Achab /
Padre Mapple

ANGELO DI GENIO
Attor giovane / Ishmael

GIULIA VIANA
Attrice giovane / Cordelia / Pip

CRISTINA CRIPPA
Direttore di scena / Cambusiere

MARCO BONADEI
Attore serio / Kent / Starbuck / Queequeg

ENZO CURCURÙ
Attore di mezza età / Stubb / Daggoo / Voce dello Scapolo

MICHELE COSTABILE
Attore / Flask / Vedetta

MASSIMO SOMAGLINO
Attore veterano / Peleg / Voce della Rachele

ALESSANDRO LUSSIANA
Attore cinico / Elijah / Tashtego

VINCENZO ZAMPA
Attore con il giornale / Carpentiere / Vedetta

MARIO ARCARI
Direttore d’orchestra

Lo spettacolo ha debuttato
al Teatro Elfo Puccini di Milano
l’11 gennaio 2022

traduzione
CRISTINA VITI

costumi
FERDINANDO BRUNI

musiche dal vivo
MARIO ARCARI

direzione del coro
FRANCESCA BRESCHI

luci
MICHELE CEGLIA

suono
GIANFRANCO TURCO

maschere
MARCO BONADEI

assistente regia
ALESSANDRO FRIGERIO

assistente costumi
ELENA ROSSI

assistente scene
ROBERTA MONOPOLI

capo macchinista
GIANCARLO CENTOLA

macchinista
TOMMASO SERRA

elettricisti
MATTEO CRESPI
GIACOMO MARETTELLI PRIORELLI

sarta
ORTENSIA MAZZEI

stagisti

ILARIA ALTIERI (regia)

FLORA PIROVANO, ALICE SPADONI e MARIOLINA SCIACCA (scenografia)

ALESSIA LATTANZIO, GIULIA LEALI (sartoria)

foto di scena
MARCELLA FOCCARDI

grafica
PLUM (PLUMDESIGN.IT)

documentazione video
TOMMASO MERIGHI

Una duratura e magnifica ossessione quella di Welles per Moby-Dick. E finalmente il 16 giugno 1955, al Duke of York’s Theatre di Londra, Welles può lottare personalmente con le sue balene bianche: Melville, il palco vuoto e la sala piena di spettatori. È un successo strepitoso: “questo spettacolo è l’ultima pura gioia che il teatro mi abbia dato”.

Eppure al pubblico non dà né mare, né balene né navi. Solo un palco vuoto, una compagnia di attori, se stesso in quattro ruoli, Achab compreso, e il suo testo, su cui aveva lavorato per mesi, trovando una via indiretta per accettare la sfida impossibile del Moby-Dick di Melville: passare per Lear, lo spettacolo che la compagnia sta recitando ogni sera, che getta un ponte tra Melville e Shakespeare, scivolando dall’ostinazione di Lear – che la vita, atroce maestra, infine redimerà – a quella irredimibile, fino all’ultimo istante, del capitano Achab.

Il blank verse di Welles – per noi splendidamente tradotto dalla poetessa Cristina Viti, milanese di nascita ma londinese d’adozione – restituisce con forza d’immagini potenti la prosa del romanzo, trasformando rapidamente l’iniziale entrare e uscire dal personaggio, che il capocomico Welles e i suoi attori fanno come ogni compagnia in prova, in una travolgente e intensa rappresentazione totale dello scontro, titanico e insensato, tra uomo e natura.

Oltre alla traduzione, un secondo potente motore di questa nostra versione del capolavoro di Welles (la prima in Italia) è una ciurma d’attori più che pronti alla sfida: un cast che rappresenta la saldatura tra le eccellenze artistiche di tre generazioni dell’ensemble dell’Elfo, (dove anche molti dei giovani sono artisti pluripremiati), e che ha lavorato in pieno lockdown all’Elfo Puccini di Milano, ritrovando, nella difficoltà del momento, l’assoluta concentrazione d’un ritiro totalizzante, da eremo, che solo la vita ferma fuori le mura del teatro ci ha per una volta concesso. Terzo potente elemento è la musica, composta e suonata dal vivo da Mario Arcari: è una portentosa generatrice di emozioni profonde, sia nelle esecuzioni strumentali che nei cori e nei Sea shanties diretti da Francesca Breschi.

Ed è così che il capodoglio bianco ha preso la nostra vita. Da quando abbiamo iniziato a portare sulla scena Moby Dick alla prova di Orson Welles, la duplice natura del grande mammifero marino ci tormenta.

ACHAB
Ma io, in quella bestia, io vedo/forza oltraggiosa, imperscrutabile malvagità;/ è questo, questo imperscrutabile che io più odio,/e che il capodoglio bianco ne sia agente o mandante/ sarà quell’odio che io gli infliggerò!/ Non mi parlate di infamia o di bestemmia: io colpirei/ anche il sole se lui osasse insultarmi!

Il controcanto a quest’odio iperumano sta proprio nel cuore del romanzo di Melville e lo abbiamo voluto anche nel cuore della nostra versione scenica:

Dicono che spesso, da che più feroce e spietata si è fatta la caccia, le balene in enormi branchi solchino gli oceani per darsi l’un l’altra protezione e assistenza. (…) se vi inoltrerete fino al cuore del branco dove giungono attutiti il clamore e lo spumeggiare delle onde, lì la distesa del mare vi apparirà come una levigata tela di raso (…)
Lì femmine e cuccioli giocano innocenti, pieni di gioia e senza timore o diffidenza alcuna. E se il vostro sguardo si spinge giù, giù, in quella trasparente profondità, lì in quelle caverne d’acqua vi appariranno le sagome delle balene che danno il latte e di quelle prossime a partorire. E come i neonati umani quando poppano puntano il loro sguardo tranquillo e fisso lontano dal seno, come se si nutrissero ancora di qualche loro memoria ultraterrena, così i piccoli di quelle balene vi guarderanno, ma non voi veramente, come se al loro occhio tranquillo voi non foste che un pezzetto di alga nel golfo.

Quindi è la natura dell’uomo a essere duplice, non quella della grande balena. Oltraggiosa e irrefrenabile natura, oscena come lo era la teologia baleniera, inventata come alibi perfetto dai quaccheri di Nuntucket, che suonava così: Dio ha fatto il Capodoglio per l’uomo e ha previsto ogni suo bisogno, dotando quella bestia, più ancora di tutte le altre balene, di quanto ci serve per vivere confortevolmente.
E allora la caccia divenne industria e l’olocausto marino fece da eco a quello terrestre dei bisonti, allo scempio – nel mondo – che l’uomo fece e fa della natura e di interi popoli, sterminandoli o schiavizzandoli.
Ma Achab, come Kurtz in Cuore di tenebra, per devastare la natura soggioga i suoi simili e ne fa strumento del suo odio, con estrema facilità.

ACHAB
Compito agevole, dopotutto…
La mia unica ruota dentata sa mettere in moto i loro diversi meccanismi…
ed eccoli tutti in moto…

Vitalismo rapace, prepotentemente – ma non esclusivamente – occidentale, che rappresenta quella metà dell’umanità che ci porta al disastro, al gorgo mortale che inghiotte la Pequod. Siamo alla sesta estinzione di massa, siamo al riscaldamento globale, siamo sull’orlo del baratro e continuiamo a correre.
Generando odiatori meno mitici e tormentati ma altrettanto ferali di Achab.
Riascoltando le cronache del G8 di Genova venti anni dopo, impressiona la follia repressiva che offese i corpi, segnò le menti e colpì le idee di quell’imponente movimento trasversale che aveva a cuore il destino del pianeta e dei popoli.
Diciamolo: Moby-Dick parla di noi, oggi. Ne parla come solo l’arte sa fare. Cogliendo il respiro dei secoli – tra passato e futuro – nel respiro di ogni istante della nostra vita.

ELIO DE CAPITANI, 20 LUGLIO 2021

1 thought on “Moby Dick alla prova

  1. Di Re Lear, di Achab o di una ritrovata umanità

    Una compagnia di teatro si ritrova a provare Re Lear, per poi interrompere e immergersi nella rappresentazione di Moby Dick. Si direbbe che l’ossessione dell’anziano sovrano, o del monco capitano, si riversi e plasmi le motivazioni che muovono le azioni degli altri personaggi in scena, così come il regista muove e plasma gli attori sul palco. Le maschere che portano a tratti gli attori sembrano rieccheggiare funeree marionette, che mescolano vita e morte, intenzione soggettiva e passiva movimentazione da parte di un Fato gran burattinaio. Ed è sempre il Fato che gonfia le vele della Pequod, che le fa trasformare nel grande cetaceo bianco con un effetto scenografico che ha del meraviglioso. Il Fato fa intravedere all’orizzonte lo zampillo d’acqua e urlare “Soffia! Soffia!” proprio un momento prima di cambiare idea, di tornare davvero verso casa. Ma è il Fato o l’ossessione che portano alla perdita dell’umanità, e, alla fine, della vita? Il Teatro dell’Elfo si cimenta con una bianca montagna. L’abisso, forse, tornando ad essere attori, spettatori ed esseri umani, l’abbiamo ormai passato.

    Caterina Bonora

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *