Don Carlo

3 thoughts on “Don Carlo”

1. Pertusi e Stoyanov, due grandi voci nel “Don Carlo” del Festival Verdi a Parma

   Opera fra le più suggestive ed elaborate dell’intero percorso creativo verdiano “Don Carlo” inaugura il Festival Verdi 2016 nell’edizione in quattro atti in lingua italiana, quella che finora ha goduto di una larga preferenza, anche se un festival, soprattutto il Festival Verdi, avrebbe potuto cogliere l’occasione di una versione francese peraltro mai eseguita a Parma. Certo è che il vero protagonista dell’opprimente atmosfera tratteggiata da Schiller e interpretata musicalmente da Verdi è il re di Spagna Filippo II che squaderna un’esperienza teatrale divisa fra i conflitti di una psiche ombrosa legata a una figura complessa dalle mille vocalità, dal duetto con Posa, al monologo, al duetto con l’Inquisitore,fino alla manifesta gelosia per il tradimento psicologico di Elisabetta. Sono tutti elementi sfaccettati che compongono il dramma della sua debolezza, primo fra tutti il conflitto interiore fra l’uomo e il re, e Michele Pertusi rende magnificamente questa storia fatta di solitudini, perché la solitudine è il prezzo chiesto dal potere, e chi lo paga inevitabilmente rende partecipi quanti gli stanno accanto. E di quella solitudine dolorosa, austera, amaramente consapevole di una stanchezza esistenziale, Pertusi ne è interprete eccezionale per il canto pastoso, pieno e ricco di vellutata morbidezza dove l’incisività della frase si allarga sulla parola stessa, sullo scavo di un accento che ne evidenzia la dimensione umana nei dubbi che lo attanagliano fra trono e altare, fra laicità e religione. L’altro grande interprete del “Don Carlo” di questo festival è Vladimir Stoyanov, il Posa dal canto austero, venato di felici ombreggiature di morbida dolcezza con un fraseggio di rara intelligenza sempre rifinito e ricco di grande personalità. Insieme queste due grandi voci “salvano” un “Don Carlo” deludente sotto profili diversi, in primis quello vocale degli altri interpreti, a partire dal discutibile Carlo di José Bros, il cui canto metallico e privo di poesia con squillo stentoreo fa prevalere l’irrequietezza sullo struggimento amoroso. Con lui sopra le righe è Marianne Cornetti, Eboli dal temperamento scenico un po’ brado, anche se sotto sotto emerge la presenza carismatica di un tempo. Di buona lettura si distingue il “Don fatale”. Serena Farnocchia è una Elisabetta di Valois altalenante nella ricerca di riflessioni e accenti in cui l’emissione viaggia sui binari di un legato non sempre corretto su una tessitura di sfinita malinconia corredata da un accento generico. Infine Jevgen Orlov è l’ennesimo sinistro Inquisitore proveniente dall’Est, ingolato e legnoso con una pronuncia incomprensibile e tagliente, incompatibile con la grandezza di Pertusi nel duetto di Filippo con l’Inquisitore. Fortunatamente al di sopra di ogni lode sta il coro del Regio magistralmente diretto da Martino Faggiani. Il “Don Carlo” è comunque un’opera in cui la statura del direttore è requisito essenziale; e Daniel Oren sulla Filarmonica Toscanini, anche se a più riprese copre le voci dei protagonisti, riesce a tradurre un reale approfondimento interpretativo nelle arie di patetica disperazione e soprattutto nella grandiosa eloquenza. Completano il cast il frate di Simon Lim, Lavinia Bini(paggio di Elisabetta), Gregory Bonfatti nel duplice ruolo del Conte di Lerma e dell’araldo, Marina Bucciarelli, intensa voce dal cielo e lo stuolo dei deputati fiamminghi Daniele Cusari, Andrea Goglio, Carlo Andrea Masciadri, Matteo Mazzoli, Alfredo Stefanelli, Alessandro Vandin. L’altra delusione nasce dalla regia di Cesare Lievi in binomio con la cornice scenografica di Maurizio Balò divisa fra due incombenti muri di fogliame cupo sullo sfondo di un cielo tempestoso, il gelido marmo sepolcrale onnipresente e la sfilata di un forte, per non dire crudo, realismo descrittivo dei condannati a morte su una lunga scia di sangue; e non sono da meno le damigelle listate a lutto, parasole compresi, come una serie di prefiche al servizio dell’opprimente corte spagnola.

   Festival Verdi,Parma. Claudia Mambelli.

2. DON CARLO INAUGURA (A META�) IL FESTIVAL DEL MAGGIO MUSICALE FIORENTINO

   Come classificare il Don Carlo, l�opera dai mille volti, all�interno del corpus verdiano? E, soprattutto, come definirlo all�interno della storia musicale e culturale europea? Ora, la recensione di uno spettacolo non � certo il luogo pi� adatto per discutere l�argomento, su cui sono stati versati e sicuramente si verseranno chilometri di inchiostro, ma ritengo interessante introdurre la critica delle recite fiorentine con una breve riflessione generale. Di Don Carlo si � spesso parlato come dell�opera decadente di Verdi, luogo dove si respira un�aria come di sfaldamento di ogni punto d�appoggio. In tutta questa desolazione (la quale � pi� interiore, dal momento che all�esterno vengono manifestate reazione parossistiche che contribuiscono ad complicare il labirinto degli affetti) la salvezza viene cercata �in un mondo migliore�, l�aldil�. Esso, nel sublime pessimismo verdiano, ci viene per� presentato, e in maniera non esplicita, irraggiungibile in quanto inesistente. Il decadentismo di cui si pu� parlare per il Don Carlo di Verdi mi pare dunque pi� che altro quello filosofico di Nietzsche piuttosto che quello letterario di Wilde e D�annunzio, dal momento che nel filosofo tedesco abbiamo quell�elemento di angoscia che aleggia pure in tutta la partitura. Le risposte a tale angoscia, va detto, sono diversissime nei due, se non antitetiche. Emerge comunque chiarissima la difficolt� nella catalogazione di questo capolavoro per sua natura sfuggente (lo stesso numero di versioni esistenti complica il lavoro), a mio avviso la massima vetta raggiunta dal compositore di Busseto. Non me ne vogliano le Traviate, gli Otelli, i Falstaff e tutti gli altri, ma con Don Carlo Verdi colse la dimensione del sublime, aiutato fra l�altro da un libretto eccellente, dove problematiche di natura politica, religiosa e sociologica si uniscono armoniosamente a creare una sorta di Dialogo sull�Umanit�. Non si tratta di un minestrone contenente di tutto e di pi�, ma � una tavolozza sempre cangiante, che lascia al fruitore la possibilit� di scegliersi l�interpretazione pi� adatta. E� questo il pregio dei grandissimi capolavori: non danno risposte, ma sollevano dubbi.
   Non ci sarebbe quindi nemmeno bisogno di dirlo: l�esecuzione di quest�opera necessita sempre l�eccellenza. Eccellenza che, purtroppo, non ho riscontrato nelle recite che hanno aperto quest�anno il 76� Festival del Maggio Musicale Fiorentino. Si sapeva gi� da tempo che l�opera sarebbe stata eseguita in forma di concerto, essendo stata annullata, per la grave crisi finanziaria che sta attraversando il teatro, la regia di Luca Ronconi inizialmente annunciata. Questa formula non avrebbe nociuto in maniera eccessiva se l�esecuzione musicale fosse stata di buon livello, e invece lo scarso scavo psicologico dei personaggi che quasi tutti i cantanti hanno offerto ha appiattito lo spettacolo, rendendo monotone le quattro ore circa di durata. Dmitry Beloselskiy � stato certamente il �migliore in campo�. Il suo Filippo II � dotato di nobile accento, � sicuro nelle note gravi e conferisce al tormentato sovrano quella dolenza tipica delle voci dell�est europa. Nel celebre duetto, il Grande Inquisitore di Burchuladze, dall�emissione malferma, impallidiva. Abbastanza buona anche la prova di Ekaterina Gubanova, la quale si � trovata a suo agio pi� nei momenti drammatici (svettava in maniera impressionante specialmente nel terzetto del giardino con Carlo e Posa) che nella celebre �canzone del velo� iniziale. L�impressione, per�, � che questa Eboli sia tutto meno che personale, e i vari dettagli nel fraseggio appaiono quindi non come scelta interpretativa dell�artista, ma come scrupoloso (e comunque riuscito) perseguimento di correttezza formale. Una prova di routine. Lo stesso problema vincolava anche Kristin Lewis nel tratteggiare il ruolo di Elisabetta: di lei si potrebbe dire che il solfeggio � certamente eccellente, ma creare un personaggio non � solfeggiare. La Lewis era fra l�altro inficiata da una pronuncia fastidiosamente americaneggiamente: questo aspetto viene troppo spesso sottovalutato, ma � essenziale se si vuole risultare credibili come interpreti efficaci della parola musicale.
   Il Posa di Gabriele Viviani era invece pallido anche da un punto di vista prettamente vocale: in particolare, sottolineo le imperfezioni nel legato, e in specie quando questo si concludeva su note gravi. Tuttavia, anche nel registro medio e acuto il suono era raramente emesso con quelal rotondit� che � caratteristica primaria del baritono verdiano. La prova peggiore l�ha per� concessa Massimo Giordano nel ruolo eponimo. La voce � perennemente in condizioni precarie sia nella zona di passaggio che nella zona acuta, e le cose non migliorano al centro, dove uno stranissimo vibrato impedisce il canto omogeneo.
   Ho tenuto per ultimo il Maestro Zubin Mehta, poich� la sua lettura non � facilmente liquidabile in due parole. Mehta ha infatti soddisfatto pienamente, aiutato da un�orchestra come sempre eccellente, nella resa di quei momenti dove la melodia si fa pi� ampia e si abbandona a un certo sentimento ardente e romantico che pu� rievocare il Trovatore. Davvero interessante anche la gestione degli ottoni, che, quando esplodevano in scene concitate, ricordavano sonorit� curiosamente (ma non troppo�) wagneriane. Ci� che ha reso non del tutto soddisfacente la prova di Mehta � stata la mancanza di �leggerezza� nel trattare gli accompagnamenti di scene pi� liriche e languorose, o di altre pi� intimiste: ne risultava un suono orchestrale complessivamente troppo denso.
   Insomma, l�apertura del Festival ha in parte deluso, ma andava in ogni caso tenuto conto degli sforzi che in questo momento il Maggio Musicale sta affrontando per non privare il suo pubblico dell�offerta musicale che merita. Il Festival � d�altronde appena iniziato, e sono presenti in locandina eventi molto allettanti quali il Macbeth nella versione originale, il concerto di Gatti o la Maria Stuarda con la Devia.

   Michele Donati

3. �Don Carlo� a Modena e Piacenza: potere e passioni nell�affresco storico di un Verdi in odore di grand-op�ra.

   Quattro ore di grande musica per raccontare l�amore, la libert�, l�oppressione, l�amicizia, l�incapacit� di comunicare ; tutti elementi che compongono una delle pi� elaborate vicende del percorso creativo verdiano, quel �Don Carlo� imparentato allo storico dramma schilleriano, che ancora oggi offre spunti di discussione sulle due versioni allestite: quella dei cinque atti, cos� sensibile al grand-op�ra francese e alle correnti culturali europee, e l�altra dolorosamente ridimensionata in quattro atti per i palcoscenici italiani. Il Teatro Comunale Pavarotti di Modena, in questa produzione che lo affianca alla Fondazione Teatri di Piacenza, predilige la versione francese ripercorrendo nella foresta di Fontainebleau l�incontro della giovane principessa Elisabetta promessa alla felicit� eterna con l�Infante di Spagna Carlo; unione che verr� stroncata sul nascere dal padre di Elisabetta che, per scelte politiche, destiner� la figlia al matrimonio col padre di Carlo, l�anziano Filippo II, sullo scenario di un grande affresco storico di una Spagna buia, truce, dove la presenza incombente del tribunale dell�Inquisizione sar� anche il luogo in cui si consumano gli affetti privati dei protagonisti stessi in un dipanarsi di vicende alterne fatte di inganni, tradimenti, dolore represso, frustrazione dei desideri,ma anche in un rimando nell�ultimo atto all�atmosfera onirica del primo duetto fra i due innamorati Carlo ed Elisabetta, caricati del peso della vicenda trascorsa. Oggi � un�impresa titanica portare in scena un apparato grandioso di un�opera che certamente risulta fra le pi� intricate di Verdi, soprattutto da un punto di vista psicologico, per il complesso intreccio creato dal tema degli affetti in contrasto con la sfera politica. Ma si sa ogni rosa ha le sue spine, e qui le spine di certo non mancano, a partire dalla farraginosa regia di Joseph Franconi Lee che, in questa occasione modenese, punta su un allestimento di chiaro stampo tradizionale, per la prima volta nella versione musicale datata 1886, e che risente, poco in verit�, dell�influsso lasciato dal grande Visconti in una lontana produzione ripresa poi nel tempo dallo stesso Franconi Lee. Qualcosa non va per il verso giusto e gli interpreti sono lasciati in bal�a della propria personalit� e della professionalit� che, malgrado tutto, dimostrano sul palcoscenico nella pi� ampia libert� gestuale e mimica. �Don Carlo� � un�opera che richiede una direzione d�orchestra di tutto rispetto che ne sappia valorizzare lo spessore musicale, ma obiettivamente la mano pesante di Fabrizio Ventura sull�organico dell�Orchestra Regionale dell�Emilia Romagna non conosce n� fantasia, n� personalit�, ma solo un frastuono eccessivo che copre troppo spesso il canto dei protagonisti, nonostante siano dotati di una vocalit� interpretativa non indifferente. Va da s� che il lato politico dell�opera sviluppato nei duetti fra Filippo e l�Inquisitore non acquisisce quella particolare espressivit� che � del �Don Carlo� uno dei momenti peculiari, e il tutto si risolve in un suono fortissimo, cupo nelle ombreggiature e denso di una tinta fosca, priva comunque di efficacia teatrale. Nel corollario delle passioni e dei sentimenti il colore tenebroso e introverso di Filippo II, dolente nelle inflessioni carezzevoli e sognanti, � ben illustrato dal basso Giacomo Prest�a che, con l�intelligenza artistica di un vecchio leone, ruggisce ancora nonostante la vocalit� talvolta oscillante, comunque ampiamente compensata da un fraseggio intenso nelle belle sfumature di �Ella giammai m�am� con l�amarezza disillusa di un coniuge alle prese con le difficolt� affettive nei confronti di Elisabetta interpretata dalla brava Cellia Costea, dotata di un carattere eloquente, particolarmente espressivo nei chiaroscuri che si stemperano in una sfinita malinconia e in una luminosit� madreperlacea. Intenso � il suo fraseggio ricco di sensibilit� che offre un�interpretazione compiuta e significativa. Simone Piazzola � il baritono del momento e senz�altro del futuro. Il suo Posa � affascinante per il colore caldo; mentre la vocalit� � piena e l�incisivit� nel fraseggio � ricca di belle notazioni espressive e di chiaroscuri sfumatissimi. Mario Malagnini , seppure dotato di un potenziale squillante, pecca di una pericolosa fissit� e di una monotonia d�accento che ne compromettono decisamente un�interpretazione poco espressiva che va a completare l�ingrato ruolo di Carlo. Alla Pozniak � una Eboli indecente per il canto arruffato e disordinato unito a una dizione che sottolinea in maniera plateale ogni asperit� e dove il corrusco peso vocale distrugge la Canzone del velo con urla spacciate per acuti e suoni rauchi di brutto effetto. E anche il Grande Inquisitore di Luciano Montanaro non brilla particolarmente per scarsa incisivit� d�accento con Prest�a. Nel contesto si disimpegna pi� che egregiamente il Coro Lirico Amadeus della Fondazione Teatro Comunale di Modena diretto da Stefano Col�, e questo � certamente un particolare da sottolineare per la riuscita di uno spettacolo che ha il merito di riportare in auge un�opera difficile nella costruzione e nell�allestimento stesso.

   Modena, Piacenza, ottobre 2012.
   Claudia Mambelli..